venerdì 26 settembre 2014

CONSIGLIO DI STATO - SULLE RIMOZIONE DELLE DIFFORMITÀ RISPETTO AL PERMESSO DI COSTRUIRE SENTENZA 23/09/14 N. 4790

La rimozione delle difformità rispetto a quanto previsto nel progetto assentito con il permesso di costruire deve rispettare i principi di proporzionalità e ragionevolezza.
Questa la sostanza della sentenza nr. 479 del 23/09/2014 :

...omissis... FATTO e DIRITTO Con sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, Salerno, sez. II, n. 1325 del 13 giugno 2013 (che non risulta notificata) è stato respinto il ricorso proposto dal signor Angelo Montone (attuale appellante) avverso una serie di atti, con cui il Comune di Castellabate imponeva, in particolare, allo stesso la cessazione dell’attività artigianale svolta (lavorazione di manufatti in ferro e alluminio), previo ordine di sospensione di tale attività (ordinanze nn. 49 del 14 dicembre 2011 e 5 del 3 febbraio 2012), ordinava la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi, per opere edilizie realizzate (ordinanza n. prot. 10416 del 23 maggio 2012), sospendeva l’istruttoria per l’autorizzazione all’immissione di acque reflue nella fognatura comunale (disposizione n. 2381 del 14 maggio 2012) e revocava l’attestazione di compatibilità paesaggistico-ambientale n. 3598 del 17 marzo 2012 (determinazione n. 416 del 6 giugno 2012). Nella citata sentenza – rilevata l’improcedibilità dell’impugnativa avverso l’ordine di sospensione dell’attività, superato dalla successiva, disposta cessazione dell’attività stessa – si respingevano, in primo luogo, le prospettazioni difensive riferite ad insufficienza del mancato rilascio del certificato di agibilità, per giustificare la predetta cessazione dell’attività artigianale svolta dal ricorrente, in quanto il certificato in questione, previsto dall’art. 24 del d.P.R. n. 380 del 2001, rappresenterebbe il presupposto per l’utilizzo regolare dell’edificio, in coerenza con la destinazione d’uso dello stesso, essendo il certificato stesso preordinato ad attestare la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene e salubrità dei locali. Non sarebbe conferente al tema in discussione una pronuncia del medesimo Tribunale amministrativo (n. 1483 del 7 settembre 2011), in cui un precedente ordine di cessazione dell’attività era basato sul carattere abusivo dei medesimi locali, per annullamento di un permesso di costruire in sanatoria, al riguardo rilasciato. Quanto all’ordine di demolizione ed alla revoca dell’attestazione di compatibilità paesaggistica, nella medesima sentenza si rilevava come gli atti impugnati fossero stati emessi in vigenza della delega, rilasciata dal Sindaco al dirigente dell’area VIII, a compiere l’attività procedimentale in questione, per “ragioni di opportunità ritenute inconciliabili con i compiti assegnati” del dirigente dell’area VII. Nella fattispecie, inoltre, avrebbero dovuto ritenersi sussistenti i presupposti applicativi degli articoli 31 e 32 del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto sarebbero stati riscontrati alterazione del piano di campagna, maggiori altezze (con conseguente incremento volumetrico) e difformità dei prospetti, rispetto a quanto assentito, peraltro in zona ricadente nella perimetrazione del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano. Quanto alla revoca dell’autorizzazione per l’allaccio dell’immobile alla rete fognaria pubblica ed alla revoca dell’attestazione di compatibilità ambientale del fabbricato, la competenza del citato responsabile dell’Area VIII sarebbe stata piena e non delegata, senza peraltro che risulti impugnato il decreto adottato in via di autotutela dalla Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici in data 4 aprile 2012 e con giustificazione della sospensione della procedura di autorizzazione per l’allaccio alla rete fognaria, a causa dell’assenza di titoli di assenso urbanistico-edilizio, dopo l’annullamento di quelli rilasciati in sanatoria. Avverso la predetta sentenza è stato proposto l’atto di appello in esame (n. 8809/13, notificato il 10 novembre 2013), nel quale si sottolinea, in punto di fatto, come il signor Montone fosse stato autorizzato – con concessione edilizia n. 6390 del 10 agosto 2002 e titolo unico n. 6161, rilasciato dal SUAP Cilento il 24 febbraio 2006 a realizzare un opificio artigianale – in zona D2 del Comune di Castellabate – per la lavorazione del ferro e dell’alluminio; nella fase esecutiva del progetto approvato, il piano interrato veniva a fuoriuscire dal terreno (per un dislivello in precedenza non rilevato) di un metro circa, con successivo rilascio – per questa ed altre modeste difformità – del permesso di costruire in sanatoria n. 3187 del 18 giugno 2010. Detto titolo abilitativo, tuttavia, veniva successivamente annullato in via di autotutela, in quanto – in zona D2 – sarebbero stati consentiti solo interventi artigianali di supporto al turismo (determinazione n. 7 del 12 gennaio 2011), con ulteriore ordine di cessazione dell’attività artigianale svolta dal signor Montone (determinazione n. 9/2011, poi reiterata con ordinanza n. 5 del 3 febbraio 2012). In sede giurisdizionale, il ricorso avverso l’annullamento del titolo abilitativo in sanatoria era respinto, mentre veniva accolta l’impugnativa avverso il primo ordine di cessazione dell’attività (sentenza TAR per la Campania n. 1483/2011, appello pendente: R.G. C.d.S. n. 10400/2011). L’ordine di ripristino dello stato dei luoghi era successivamente eseguito, per quanto riguarda la sistemazione del piano altimetrico di campagna, mentre per un piccolo locale veniva presentato ricorso straordinario al Capo dello Stato. Interveniva a questo punto (per “concludere i procedimenti afferenti la vicenda Sodano / Morone”) il responsabile dell’area VIII, che con atto n. prot. 4736 del 7 marzo 2012 avviava procedimento di revoca in autotutela dell’ordinanza n. 45 del 17 novembre 2011. L’incarico al predetto dirigente veniva poi, a sua volta, revocato dal Sindaco con atto n. 7044 del 6 aprile 2012: l’ordinanza di demolizione ex art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, tuttavia, sarebbe intervenuta il giorno prima (5 aprile 2012), ma senza prove certe al riguardo e comunque con superamento dei limiti dell’incarico, conferito al dirigente stesso. Premesso quanto sopra, nell’impugnativa erano prospettati motivi di gravame, di cui si riassumono di seguito i punti essenziali: a ) erroneità della motivazione, in relazione alla carenza di potere e all’incompetenza del responsabile dell’Area VIII ad adottare gli atti impugnati; b) violazione degli articoli 31, 34 e 38 del d.P.R. n. 380 del 2001; erroneità della motivazione, poiché il modesto incremento volumetrico realizzato (12% del totale) ed il “risibile incremento dell’altezza” (dieci centimetri) non sarebbe stato sufficiente per concretizzare variazione essenziale del titolo abilitativo posseduto (decisiva sarebbe sul punto la sentenza del TAR n. 1483/2011); c) violazione degli articoli 24 e 26 del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto, al momento della richiesta, il signor Montone avrebbe avuto titolo ad ottenere l’agibilità dei locali; d) violazione dell’art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001; erroneità della motivazione, avendo il medesimo signor Montone ottenuto l’autorizzazione (n. 6390/2006) per realizzare l’impianto produttivo in precedenza specificato, con acquisizione di tutti i necessari pareri e dopo due riunioni della conferenza di servizi, con successiva illegittima imposizione di adempimenti, che avrebbero implicato la totale demolizione del manufatto; e) violazione degli articoli 124 e 130, in relazione all’art. 74, del d.lgs. n. 152 del 2006, in quanto sarebbe stato utilizzato un particolare sistema di smaltimento dei rifiuti liquidi, mediante accumulo degli stessi in una vasca a tenuta stagna, soggetta ad espurgo da parte di ditta specializzata ed autorizzata (cosiddetto scarico indiretto, per il quale non rileverebbe la distanza dal collettore pubblico); f) violazione degli articoli 50 e 54 del d.lgs. n. 267 del 2000; incompetenza del Sindaco per le sanzioni in materia di scarichi; g) ancora violazione degli articoli 50 e 54 del d.lgs. n. 267 del 2000; eccesso di potere sotto vari profili, in quanto sarebbero mancati – senza peraltro costituire oggetto di adeguata motivazione – i presupposti per emettere ordinanza contingibile ed urgente; h) violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990 e dei principi del giusto procedimento, non avendo ricevuto adeguata risposta la nota, con cui il signor Montone aveva replicato alla diffida in materia di scarichi. Con appello incidentale, notificato il 9 gennaio 2014, i signori Gerardo Sodano e Lina Di Giorgio, proprietari di un appezzamento di terreno limitrofo a quello del citato signor Montone, contestavano a loro volta la legittimità dell’originaria concessione edilizia n. 1931, ricadendo l’intervento di cui trattasi in zona D2 (artigianato di servizio), nel quale sarebbe stato necessario uno strumento attuativo e nel quale, comunque, avrebbe potuto essere consentita soltanto la realizzazione di “esercizi artigianali e commerciali di uso pubblico a supporto dello sviluppo turistico” (negozi, strutture per rimessaggio di natanti da diporto, circoli culturali e sportivi), mentre per un impianto produttivo del tipo in esame sarebbe stata utilizzabile soltanto l’area D1. Erano riproposte, inoltre, eccezioni di inammissibilità e improcedibilità dell’impugnativa, sia per tardiva notifica ai medesimi, in quanto soggetti controinteressati, del ricorso di primo grado, sia per omessa notifica al Sindaco in qualità di Ufficiale di Governo per alcuni degli atti emessi, sia per mancata impugnativa del provvedimento della Soprintendenza n. 9917 del 4 aprile 2012 (revoca del parere favorevole all’accertamento della compatibilità paesaggistica), con conseguente preclusione di ogni ulteriore possibilità di sanatoria. Il tipo di scarichi provenienti dall’attività in questione, infine, avrebbe richiesto idonei trattamenti di depurazione prima del versamento in vasca. L’appellante, a sua volta, contestava l’eccezione di improcedibilità, precisando come l’oggetto dell’impugnativa riguardasse ormai in via prioritaria, dopo l’annullamento della sanatoria, il carattere parziale o totale delle difformità rilevate rispetto al progetto assentito e ribadiva il carattere illegittimo (nonché sostanzialmente persecutorio) della procedura espletata dall’Amministrazione. Altro appello incidentale era proposto dal Comune di Castellabate, con riferimento alla revoca dell’autorizzazione paesaggistica (preclusiva ormai di qualsiasi sanatoria) ed alla tardiva contestazione di alcuni atti (sospensione dell’istruttoria per autorizzare l’allaccio alla pubblica fognatura e note del Segretario comunale, oggetto di motivi aggiunti di gravame). Premesso quanto sopra, il Collegio rileva, in via preliminare, come la complessa vicenda sottoposta a giudizio abbia come fondamentale presupposto la valutazione delle difformità, rilevate in sede di esecuzione di un permesso di costruire, in precedenza rilasciato, nonchè la conformità della prevista destinazione d’uso dell’immobile da realizzare alla destinazione di zona. Ancora in via preliminare, inoltre, il medesimo Collegio ritiene che la causa possa essere decisa anche mentre è ancora pendente l’appello avverso la sentenza del Tribunale amministrativo per la Campania n. 1483/2011, nella quale era ritenuto fondato l’annullamento in via di autotutela del permesso di costruire in sanatoria in un primo tempo rilasciato al citato signor Montone (per incompatibilità della destinazione dell’area, interessata dall’intervento, con l’attività da svolgere nell’immobile), mentre veniva accolta l’impugnativa, proposta avverso l’ordine di cessazione della predetta attività, in quanto tale cessazione non avrebbe potuto considerarsi conseguenza inevitabile dell’annullamento della sanatoria, concernente alcune difformità da una concessione edilizia (n. 1931 del 4 marzo 2002), di per sé rimasta “valida ed efficace”, non meno del provvedimento autorizzativo unico, per l’esercizio dell’attività di cui trattasi (n. 6390 del 10 agosto 2006). La vicenda che è oggetto del presente giudizio, in effetti, supera in parte quella esaminata nella predetta sentenza di primo grado n. 1483/2011, essendo stati emessi nuovo ordine di cessazione dell’attività artigianale (n. 5 del 3 febbraio 2012) e ordine di demolizione (n. 10416 del 23 maggio 2012), implicante abbattimento dell’intero edificio, previa revoca di un precedente ordine di mera rimessa in pristino dello stato dei luoghi (n. 45 del 17 novembre 2011). Nonostante la sovrapposizione di alcune tematiche, inerenti alla destinazione dell’area sotto il profilo urbanistico, pertanto, il Collegio ritiene che la causa possa essere decisa senza necessaria riunione con l’altro appello pendente, non avendo carattere pregiudiziale – in rapporto agli atti sottoposti al presente giudizio – il diniego di sanatoria che è oggetto del citato appello n. 10400/2011. Sono pure da respingere alcune eccezioni preliminari contenute nell’appello incidentale dei signori Sodano e Di Giorgio (da ritenere, in primo luogo, strumento non idoneo per contestare l’originario permesso di costruire, in quanto possibile oggetto di tempestiva impugnazione solo in via principale): irrilevante, in primo luogo, risulta la prospettata tardività della notifica del ricorso di primo grado a detti appellanti incidentali, non avendo questi ultimi la posizione di controinteressati in senso giuridico formale in rapporto agli atti, impugnati dal signor Montone. Detti appellanti incidentali infatti, in quanto proprietari di un immobile limitrofo a quello di cui si discute, sono titolari di un interesse protetto alla regolare edificazione sul fondo vicino, con possibilità di sollecitare interventi repressivi dell’Amministrazione e di impugnare titoli abilitativi rilasciati con riferimento a quest’ultimo, se ritenuti illegittimi; l’Amministrazione, tuttavia, è tenuta ad adottare i provvedimenti ritenuti necessari nei confronti del solo proprietario dell’area, direttamente interessata dall’intervento edilizio ritenuto irregolare, senza che l’atto rechi alcuna indicazione riguardo ai soggetti, che abbiano eventualmente sollecitato le iniziative comunali e senza pertanto che tali soggetti possano ritenersi controinteressati, se non in via di mero fatto, con conseguente ininfluenza dell’eventuale notifica del ricorso agli stessi (notifica da ritenersi effettuata, nel caso di specie, per mero tuziorismo). A maggior ragione tale posizione di controinteresse non può essere invocata per l’ordine di cessazione dell’attività, in rapporto al quale viene meno anche il criterio della vicinitas e a cui i signori Sodano e Di Giorgio possono ritenersi interessati solo in via indiretta, ovvero con esclusivo riferimento ad una destinazione d’uso dell’edificio di cui trattasi, conforme a quella prevista dalla vigente disciplina urbanistica. L’art. 41, comma 2 del Codice del processo amministrativo (approvato con d.lgs. n. 104 del 2010) è del resto chiaro nell’indicare quale “controinteressato” alla conservazione dell’atto il soggetto “che sia individuato nell’atto stesso”. Quanto all’eccezione di omessa notifica al Sindaco quale “Ufficiale di Governo”, la circostanza è stata smentita in fatto, con richiamo all’intervenuta notifica di copia dell’atto di appello all’Avvocatura Generale dello Stato. L’eccezione di improcedibilità, infine, appare a sua volta da respingere, in quanto riferita ad omessa impugnazione di un provvedimento (revoca di parere favorevole della Soprintendenza n. prot. 9917 del 4 aprile 2012), che appare riferibile alle difformità rilevate rispetto al progetto assentito e non – come viene rappresentato – all’originario titolo abilitativo, rilasciato nel 2002 e ampiamente consolidato, senza che emergano precise ragioni per ritenere che – in contrasto con quanto previsto dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 in tema di autotutela, in particolare sotto il profilo dei tempi ragionevolmente rapidi di esercizio – la Soprintendenza intendesse eliminare il presupposto del titolo abilitativo originario. Detta revoca, pertanto, non può che essere riferita alle difformità riscontrate e ritenute non sanabili, senza coinvolgere la richiesta valutazione di legittimità delle misure repressive e ripristinatorie, previste dall’ordinanza n. 45 del 17 novembre 2012, la cui esecuzione avrebbe dovuto non regolarizzare dette difformità, ma ripristinare la conformità dell’edificio al progetto assentito, sia pure con modifica – ritenuta non incompatibile con la normativa urbanistica – dei livelli altimetrici del suolo a valle dell’edificio stesso. Analoghe considerazioni vanno riferite all’appello incidentale del Comune, concernente la medesima revoca della Soprintendenza (mentre altre considerazioni investono solo l’impugnazione con motivi aggiunti – ritenuti tardivi – di atti endoprocedimentali, conseguenti a quelli impugnati in via principale) Nella citata ordinanza n. 45/2012 – rilevate diverse difformità di quanto realizzato, in rapporto al permesso di costruire n. 1931 (prot. 2872) del 4 marzo 2002 – si imponeva di riportare l’immobile costruito allo stato originario previsto in progetto, con limitate demolizioni e adeguamenti, ripristinando “plano-altimetricamente il piano di campagna che circonda l’immobile” e chiudendo “le finestre a servizio del piano interrato, che danno sul prospetto che sporge per circa un metro dall’attuale piano di campagna”. Detta ordinanza è stata resa oggetto di comunicazione di avvio del procedimento e, successivamente, di revoca in autotutela, con contestuale ordine di demolizione, per ragioni che il Collegio intende esaminare sotto i fondamentali profili di stretta legittimità, che appaiono assorbenti rispetto alle ipotesi di sviamento e incompetenza, prospettate dalla difesa dell’appellante in modo diffuso e, per certi aspetti, disorganico. Deve quindi essere sottolineato come l’originario permesso di costruire del 4 marzo 2002, nonché l’autorizzazione unica del 10 agosto 2006, consentissero l’installazione sull’area di cui trattasi di un edificio di tre piani, uno dei quali completamente interrato, da adibire alla lavorazione artigianale del ferro e dell’alluminio. Dopo alcuni anni l’immobile realizzato è stato oggetto di contestazioni, sul piano sia strettamente edilizio che della destinazione d’uso. Sotto il primo profilo, i rilievi riguardavano alcune difformità minori e, soprattutto, la parziale fuoriuscita del piano interrato per un dislivello naturale del terreno, con conseguente superamento dei limiti volumetrici e di altezza, come calcolati nel progetto approvato. In rapporto a quanto sopra – escluse ipotesi di sanatoria, che non costituiscono oggetto del presente giudizio – la citata ordinanza n. 45 del 2012 disponeva la rimessa in pristino dell’immobile in base a detto progetto, anche tramite un riporto di terreno, tale da rendere nuovamente interrato il piano, parzialmente emergente a causa del predetto dislivello. Non è contestato che tale ordinanza sia stata eseguita dall’interessato, né che il livellamento fosse compatibile con la vigente normativa urbanistica. In tale situazione, il Collegio ritiene che le successive contestazioni, inerenti ad altezza e volumetria dell’edificio (calcolate come se la parziale fuoriuscita dal terreno non fosse stata eliminata), nonché allo stesso livellamento del terreno (intervenuto in esecuzione dell’ordinanza comunale e al fine di eliminare le difformità anzidette) non possano ritenersi legittime, in quanto frutto di erronea applicazione delle norme, dettate in materia di difformità essenziale dell’edificio rispetto al relativo titolo abilitativo. L’art. 31 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), nella parte in cui prevede la “rimozione” delle difformità essenziali rilevate, rispetto al progetto assentito, deve infatti trovare lettura, seppure con le dovute cautele, conforme ai principi di proporzionalità e ragionevolezza. In base a tali principi, ove un assai modesto eccesso di altezza e di volumetria fossero conseguenza – come viene rappresentato nel caso di specie – di un mero dislivello del terreno e ove quest’ultimo potesse venire corretto con un riporto di terreno, se non incompatibile con la normativa vigente in tema di calcolo delle volumetrie interrate, l’interesse pubblico al rispetto dei parametri urbanistici avrebbe potuto essere perseguito (come in un primo tempo avvenuto) senza necessaria e, a tal punto, sproporzionata compromissione degli interessi del proprietario dell’immobile (se costretto ad una demolizione dell’edificio inevitabilmente totale, poiché riferita al piano seminterrato di sostegno). Quanto alla destinazione dell’immobile di cui trattasi, il Collegio ugualmente non concorda con quanto rappresentato nell’atto di revoca, risultando ancora una volta irragionevole un’interpretazione restrittiva della destinazione dell’area (D2: “Insediamenti produttivi a supporto dello sviluppo turistico”), dovendo ritenersi che la norma imponga limiti di dimensioni più che di tipologia degli insediamenti stessi, potendo questi ultimi supportare lo sviluppo turistico dell’area solo se a carattere di esercizio commerciale o artigianale, in settori utili anche per le esigenze di turisti e viaggiatori (soggiornanti, o in transito con autovetture, imbarcazioni, caravan o roulottes), senza quella compromissione delle caratteristiche funzionali al turismo, che potrebbe ravvisarsi in presenza di insediamenti di livello industriale, o comunque inidonei a soddisfare esigenze contingenti dell’utenza (cfr. in senso sostanzialmente conforme Cons. Stato, V, 23 ottobre 2013, n. 5132, citata dalla appellante). Le ragioni esposte appaiono sufficienti per giustificare l’accoglimento dell’appello principale ed il rigetto di quelli incidentali, in quanto i vari atti impugnati (dalla denegata agibilità al provvedimento relativo agli scarichi, fino ovviamente all’ordine di cessazione dell’attività) non potranno che essere oggetto di riesame, in base ai principi interpretativi in precedenza esposti, con assorbimento di ogni ragione difensiva non espressamente esaminata. Il Collegio ritiene infine di non accogliere la richiesta di cancellazione di frasi asseritamente offensive nei confronti del funzionario, che ha emesso gli atti impugnati, trattandosi di vis polemica connaturata all’esercizio del diritto di difesa: le circostanze segnalate, d’altra parte, erano tali da suscitare alcune perplessità, che la difesa dell’appellante ha cercato di evidenziare senza, tuttavia, eccedere rispetto alla prospettazione di ragioni di sviamento di potere, che il medesimo Collegio ha ritenuto di poter dichiarare assorbite, con valutazione globale dell’intera vicenda contenziosa. Le spese giudiziali – che il Collegio ritiene di dover porre a carico del Comune, soccombente in giudizio – vengono liquidate nella misura di €. 2.000,00 (euro duemila/00). P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso in appello indicato in epigrafe, nei termini precisati in motivazione e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, annulla gli atti impugnati in primo grado, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione; respinge gli appelli incidentali. Condanna il comune di Castellabate al pagamento delle spese giudiziali, a favore dell’appellante, nella misura di €. 2.000,00 (euro duemila/00). Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 luglio 2014 con l'intervento dei magistrati: Giuseppe Severini, Presidente Sergio De Felice, Consigliere Gabriella De Michele, Consigliere, Estensore Carlo Mosca, Consigliere Bernhard Lageder, Consigliere

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